Scritto da Alessandro Viglione
Ci sono epoche che continuano a chiamarti, anche a distanza di oltre un secolo. Per me, l’Italia di inizio Novecento è una di quelle stagioni culturali che non smetto di esplorare. Ogni volta che leggo una pagina di Pirandello o osservo un manifesto futurista, ho l’impressione che quell’epoca stia ancora dialogando con la nostra. Non solo per l’estetica, ma per il senso profondo di transizione che la attraversa: un’epoca in cui tutto si stava riformulando — arte, pensiero, società e, cosa che mi colpisce ogni volta, anche le regole del vivere insieme.
L’arte e la letteratura: un nuovo inizio, tra rottura e consapevolezza
Il Futurismo, con tutta la sua irruenza e provocazione, è stato uno dei primi movimenti che ho studiato con attenzione. Marinetti e i suoi sodali volevano distruggere il passato per far posto alla modernità: una sfida estetica, certo, ma anche etica. Mi affascina come, attraverso la celebrazione della velocità, del dinamismo e della tecnologia, si sia cercato di riscrivere non solo il linguaggio artistico ma anche una sorta di nuovo codice sociale.
Ma è nella letteratura che, secondo me, si gioca la partita più complessa. Pirandello, Verga, D’Annunzio… ciascuno a modo suo, ha messo in discussione l’identità, il concetto di verità, la relazione tra individuo e collettività. È una letteratura che interroga continuamente ciò che è giusto, ciò che è accettato, ciò che è possibile. Una sorta di riflessione continua su ciò che “è scritto” e ciò che, invece, resta sospeso, interpretabile. Ecco, forse è per questo che la trovo così attuale.
Nuovi linguaggi: quando cinema e musica diventano specchio del cambiamento
Altro motivo che mi avvicina a questo periodo è la nascita del cinema come linguaggio autonomo. I primi film muti, la nascita di Cinecittà, l’affermazione di autori che poi diventeranno simboli del neorealismo: tutto comincia qui, nei primi decenni del Novecento. Un’arte giovane, che si muove tra intrattenimento popolare e riflessione sociale, influenzata — e talvolta limitata — da quelle che potremmo definire le “prime norme culturali” di massa.
E poi c’è la musica, che da Giuseppe Verdi in poi si fa sempre più consapevole del proprio ruolo. La lirica resta un linguaggio nobile, ma si affaccia anche il desiderio di arrivare a un pubblico più ampio. Un equilibrio sottile tra forma alta e cultura diffusa, dove anche la legittimità di ciò che è arte viene continuamente ridefinita.
Come le leggi influenzano la cultura
Un aspetto che osservo con particolare interesse è quello delle normative dell’epoca. Le riforme Giolittiane, l’ampliamento del suffragio, le prime leggi sul lavoro e sull’istruzione… Non si tratta solo di questioni legislative, ma di scelte che hanno inciso profondamente anche sull’immaginario culturale. Cosa vuol dire avere accesso alla cultura? Chi può parlare, pubblicare, esprimersi?
Mi colpisce il modo in cui questi interrogativi si riflettono in tanti testi dell’epoca, anche tra le righe. Come se la società stesse riscrivendo, insieme ai codici civili, anche i codici culturali. E chi aveva voce — scrittori, intellettuali, artisti — lo faceva con una consapevolezza nuova, più partecipata, più civile. Un impegno che, a pensarci bene, anticipa molte delle battaglie ancora aperte oggi.